Una cosa detta, esiste
Lisa:
è sempre molto difficile raccontare agli altri di un trauma che abbiamo subito per almeno tre motivi.
Raccontare agli altri vuol dire:
dare una forma, un contenuto e uno spazio mentale a quanto ci è accaduto, perchè dobbiamo farci capire;
il secondo motivo è che mi devo fidare di chi ho davanti, della persona a cui sto spiegando quanto mi è accaduto;
e il terzo motivo, forse il più impegnativo di tutti, è che non devo pensare di essere giudicato, ma devo solo pensare di essere ascoltato.
Guido:
La mia difficoltà nel dire a mia moglie Daria della malattia, era perché, per me … dopo …voleva dire essere veramente malato.
Quando ti capita qualcosa che ti fa stare male, è il non dirlo a nessuno, neanche a te stesso ad alta voce, che ti fa sembrare quella cosa come se non fosse accaduta, perché nel momento stesso che la racconti a qualcuno … quella cosa diventa vera.
E’ un po’ quello che succede a chi è vittima di una violenza. Spesso è un segreto che la persona tiene per sé, perché nel momento stesso in cui la dice ad un’altra persona, il dolore della violenza subita diventa reale.
E il dolore viene sentito in profondità, dentro all’anima.
Sembrano molto distanti i pensieri di chi viene violentato e di chi subisce una diagnosi di malattia, ma se ci si pensa bene entrambe le situazioni arrivano all’improvviso, con forza inaudita e stravolgono la vita.
C’è però un’enorme differenza tra le due situazioni: chi è colpito dalla malattia, è colpito dalla natura; chi è colpito dalla violenza, è colpito da un altro essere umano.
Ma in entrambi i casi, dobbiamo imparare a cercare le persone giuste e confidarci con loro.
A me ha fatto bene parlare con Daria, ma ho conosciuto altre persone che hanno preferito confidarsi con i genitori, con gli amici, con i professionisti che li avevano in cura.
Non c’è la persona giusta in assoluto, esiste la persona giusta per ognuno di noi.
Pensate che una volta una signora mi raccontò che tornando a casa, dopo avere ricevuto la sua diagnosi, si sentiva disperata. Aprendo il portone di casa sentì la solitudine assalirla. Aveva tante persone intorno, ma non si sentiva pronta per nessuna di esse.
Prese l’ascensore e raggiunto il suo piano, non scese. Pigiò il pulsante e tornò indietro di due piani e quasi senza accorgersene suonò il campanello di una donna che abitava nel suo palazzo.
Da anni la incontrava, non erano amiche, ma una volta le aveva detto che se aveva bisogno poteva andare da lei.
E così, quando la vicina aprì la porta, lei iniziò a piangere, senza fermarsi e l’altra donna la fece entrare e l’ascoltò in silenzio.
Allora le domandai: “Ma scusi ma perché andare da un’estranea?”
“Perché è una psicologa e sa ascoltare, e sa cosa mi domandò alla fine del mio pianto? <<Vuole un bicchiere d’acqua?>>”
“Vuole un bicchiere d’acqua?????!!!!” feci io, ma lei finì la storia:
“Sì, perché una volta le avevo raccontato che quando prendevo paura, tanta paura, mia mamma mi dava sempre un bicchiere d’acqua per calmarmi.”