Chi può consolare il mio dolore?
Lisa:
Appena ricevuta la diagnosi è un momento di smarrimento.
Ognuno reagisce in modo differente. Prendiamo in considerazione tre stili diversi.
Ci sono persone che negano questo sentirsi smarrite e si concentrano su quello che di pratico devono fare (le terapie). Sono coloro che si concentrano sul Tempo del Fare.
Altre vivono un senso di vergogna, perché temono di essere considerate “poverine” e di ricevere la compassione degli altri. Di solito queste persone tendono a tenere nascosta il più possibile la loro malattia. Sono coloro che si concentrano sul Tempo del Negare/Rimuovere.
Altre ancora percepiscono l’aspetto emotivo e cercano di razionalizzarlo. Sono coloro che si concentrano sul Tempo del Pensare.
Guido Speranza è una persona che appartiene al Tempo del Pensare.
Guido
Il giorno della diagnosi, dopo avere pensato a me, pensai alla mia famiglia: mia moglie, i miei figli, i miei genitori ed i miei fratelli.
Fu una fitta al cuore.
E adesso? Come potevo presentare Delinquente alla mia famiglia?
Mi fermai e ascoltai il mio cuore.
Non c’era bisogno di dire subito tutto a tutti.
Dovevo pensare a quello che mi stava accadendo.
Non mi era mai capitato prima di trovarmi nella parte del malato.
Non sapevo da chi andare subito, ma mi feci una domanda:“Chi può consolare il mio dolore? ”
Perché per quanto le persone ti possano dire che ti sono vicine, tu senti dentro un dolore così pazzesco che hai bisogno di qualcuno con cui condividerlo.
Mi feci una scaletta di incontri.
Mi venne in mente subito Daria, mia moglie.
Insieme, noi due, avremmo poi deciso cosa dire ai nostri figli e il come e il quando comunicare loro una notizia così importante.Dai miei genitori ci sarei andato dopo, da solo, lo preferivo.
Mia madre avrebbe detto la prima frase che le passava per la testa, e non sempre é la più intelligente. Bisogna sempre avere ben presente come sono le persone, perché le malattie sono come delle lenti di ingrandimento e non fanno cambiare le persone.
I film americani ci fanno sempre vedere che le persone cambiano, perché sono malate e così anche i loro familiari e amici.
Ma non è vero.
Noi restiamo quello che siamo, è solo che il nostro modo d’essere si amplifica, quando un trauma ci colpisce.
E io sapevo benissimo che l’eccessiva spontaneità di mia madre mi avrebbe creato qualche problema, così decisi di informarla dopo Daria.
Sarei andato a casa dei miei genitori e avrei detto loro:
“Vostro figlio è malato!”
Ecco, a pensarci bene, era proprio una brutta frase, perché nella logica delle cose sono i genitori ad ammalarsi e non i figli.
Probabilmente era quello, che mi dava da fare. Non il modo d’essere di mia madre, ma il dover dare una brutta notizia a mamma e papà.
I miei fratelli mi davano meno da fare.
Già mi immaginavo che mio fratello avrebbe sdrammatizzato e mia sorella avrebbe iniziato a dirsi disponibile per aiutarmi in qualsiasi modo.
Mi accorsi che fantasticare sulle loro possibili reazioni mi dava un’idea … di controllo.
Non avevo mai pensato di essere uno che avesse bisogno di controllare le situazioni.
Sentivo chiaro il bisogno di ragionare su tutti; i loro volti familiari passavano davanti ai miei occhi toccando il mio cuore.
Mi commossi, ma non era tristezza, era la gioia di non sentirmi solo.
Avevo tante persone da informare e con tutte, com’era nel mio stile, lo avrei fatto io.
Mi sentii nuovamente marito, padre, figlio e fratello.
Quante cose ero io?
Non ci avevo mai pensato; per la prima volta mi accorsi delle relazioni che riempivano la mia vita; le sentii vere e non così ovvie.